Fondazione Di Vittorio, Covid ha accentuato criticità, cresce la precarietà

Secondo la ricerca realizzata dalla fondazione Di Vittorio dal titolo “Il mercato del lavoro in Italia alla prova della pandemia: ripercussioni e prospettive”, sono molte le cause che hanno determinato l’attuale condizione del mercato del lavoro: la pandemia è il problema principale, ma si somma a questioni irrisolte che da tempo gravano sull’economia italiana e sul suo modello di sviluppo. Nel secondo trimestre la variazione congiunturale (rispetto al trimestre precedente) del numero di inattivi in età da lavoro è pari a +742mila (+5,5%), incremento che sale a +1 milione 310mila (+10%) se valutato su base tendenziale (rispetto al secondo trimestre 2019), mentre si sono persi 470mila occupati su base congiunturale (-2,0%) e 841 mila nell’arco dei 12 mesi (-3,6%).
Diversamente dal solito, la crisi non ha generato nel breve periodo un aumento di nuovi disoccupati perché le persone che hanno perso il lavoro non hanno potuto, a causa del lockdown, cercarne un altro. Se si prende in esame l’area della sofferenza, vale a dire le persone in età da lavoro (15-64 anni) disoccupate, scoraggiate (inattivi disponibili a lavorare che hanno rinunciato a cercare un impiego perché convinti di non trovarlo) o occupate in cassa integrazione, si osserva che nel secondo trimestre dell’anno contava 5 milioni e 240mila unità, circa 1 milione e mezzo in più rispetto allo stesso trimestre del 2019 (+40,5%).
Va tuttavia valutato anche l’incremento straordinario di inattivi che non cercano lavoro per altri motivi, incremento imputabile alle restrizioni alla mobilità imposte dall’emergenza sanitaria: considerando nell’area della sofferenza anche gli inattivi che hanno dovuto rinunciare alla ricerca di un lavoro (poco meno di un milione), la stessa area si dilata fino a 6 milioni e 212mila unità nel secondo trimestre dell’anno.
Nonostante gli ammortizzatori sociali e il blocco dei licenziamenti abbiano contenuto l’emorragia di posti di lavoro, nell’arco di un anno, tra il secondo trimestre 2019 e il secondo trimestre 2020, i dipendenti a tempo determinato calano di 677mila unità (-21,6%), un numero che copre da solo l`80% della diminuzione complessiva dell’occupazione osservata nei 12 mesi; i giovani under 35 perdono 416mila occupati (-8%) e il corrispondente tasso di occupazione scende di 3,2 punti, fermandosi al 39,1%; le donne occupate diminuiscono di 470 mila (-4,7%) e il tasso di occupazione femminile si riduce di 2,2 punti, toccando in basso il 48,5; i lavoratori del Mezzogiorno, tra i quali è maggiore il peso dei dipendenti a termine e minore il peso degli occupati nell’industria, scendono di 331mila (-5,3%). Il crollo dell’occupazione ha interessato in particolare gli impieghi nei servizi e nel commercio (-10,2% in un anno).
Nel complesso dunque la crisi dovuta all’emergenza sanitaria ha colpito soprattutto le componenti più vulnerabili del mercato del lavoro, le posizioni lavorative meno tutelate e l’area del Paese tradizionalmente più in difficoltà, il Mezzogiorno; in altre parole, la pandemia ha acuito i divari preesistenti nella partecipazione al mercato del lavoro. A luglio, dopo quattro mesi, l’occupazione finalmente torna a crescere (+0,4% rispetto a giugno, pari a +85mila unità, quasi tutte donne) e riprende l’incremento dei disoccupati, associato al calo dell’inattività.
La nuova occupazione è tutta dipendente (+145mila) e quasi tutta a tempo indeterminato (+137mila), mentre gli indipendenti diminuiscono ancora (-60mila). Ad agosto si conferma la diminuzione degli inattivi e l’aumento dell’occupazione (ancora +0,4%, pari a +83mila).
A crescere in questi due mesi è soprattutto l’occupazione stabile, che copre da sola quasi il 90% dell’incremento cumulato nei due mesi (150mila di 168mila). Da settembre inizia un nuovo rallentamento dell’economia, con un aumento trascurabile dell’occupazione (+6mila rispetto ad agosto) e solo in ragione di un incremento dei dipendenti a tempo indeterminato (+22mila).
A ottobre, quando l’occupazione ricomincia a diminuire (-13mila, tiene solo l’occupazione stabile), mancano all’appello, rispetto a febbraio, circa 420 mila occupati, mentre si contano circa 80mila disoccupati e oltre 230mila inattivi in più. Da inizio emergenza Covid-19 e fino a metà novembre la cassa integrazione ha coperto oltre 6,6 milioni di lavoratori per 3,4 miliardi di ore. La proroga della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti fino al 21 marzo del 2021, insieme con i ristori disposti per autonomi e partite Iva, limiterà secondo la Cgil almeno fino a quella data la perdita di posti di lavoro causata dalla nuova recessione.
“La pandemia ha accentuato e reso evidenti le criticità e le debolezze già presenti nel nostro mercato del lavoro: crescita della precarietà e dell’occupazione povera e scarsamente qualificata, esclusione dei giovani, ampliamento dei divari territoriali. Inoltre, ha determinato il crollo dei tempi determinati, la crescita dei lavoratori scoraggiati e l’aumento di coloro che sono nella cosiddetta area della sofferenza”. Così il segretario confederale della Cgil, Tania Scacchetti, commenta quanto fotografato dalla ricerca realizzata dalla fondazione Di Vittorio.
Per la dirigente sindacale “il 2021, partendo da queste basi, non può diventare l’anno dei licenziamenti. Certamente il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e il blocco dei licenziamenti hanno evitato una vera e propria emorragia di posti di lavoro, ma ora sono urgenti altre misure, in primis la riforma degli ammortizzatori sociali, accompagnata da alcuni interventi da attuare subito come il rilancio dei contratti di solidarietà, il rafforzamento della Naspi e della Dis Coll”.
Inoltre, prosegue Scacchetti, “sarà fondamentale definire una forte condizionalità degli investimenti alle loro ricadute occupazionali. Sarà essenziale definire un piano straordinario per l’occupazione che a partire dai settori pubblici, sanità ed istruzione in primis, possa garantire uno shock occupazionale soprattutto per giovani e donne. La sfida che il nostro Paese ha davanti, offerta anche dalle risorse europee, è quella di scegliere un nuovo modello di sviluppo fondato sulla crescita sostenibile, sull’innovazione digitale, sulla riconversione ambientale del sistema produttivo e sul lavoro di qualità. Invertire la tendenza che, negli ultimi anni, ha visto crescere le disuguaglianze nel mercato del lavoro, aumentare il lavoro precario e discontinuo non è solo possibile, ma obbligatorio”.
E.G. da il diariodellavoro.it

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