Violenza domestica, ‘Non protetta dal marito violento’, Italia condannata Corte Strasburgo su uomo che uccise figlio 1 anno e ferì moglie

‘Non protetta dal marito violento’, Italia condannata Corte Strasburgo su uomo che uccise figlio 1 anno e ferì moglie

(Samantha Agrò)  Lo Stato non ha protetto come avrebbe dovuto e potuto Annalisa Landi e i suoi figli dalla violenza dell’uomo a cui erano legati affettivamente. La mancanza di azioni immediate ha finito per costare la vita al piccolo Michele che aveva appena compiuto un anno, e ha condotto al ferimento di sua madre e di sua sorella testimoni della tragedia. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia per la violazione del diritto alla vita del piccolo e della donna, puntando il dito soprattutto in direzione della magistratura “rimasta passiva di fronte ai gravi rischi che correva Annalisa”. Questa passività, afferma la Corte di Strasburgo, ha permesso all’uomo di continuare a minacciare e aggredire la sua compagna senza alcun ostacolo e in tutta impunità. o Stato dovrà versare alla donna 32mila euro per danni morali. I fatti su cui la Corte si è pronunciata risalgono al settembre 2018, quando a Scarperia, un comune in provincia di Firenze, il compagno della donna, incollerito per il pianto del piccolo Michele e una telefonata ricevuta da Annalisa, afferra un coltello e si lancia sulla donna che si è rifugiata sul balcone con i figli. Dopo aver gettato la figlia contro un muro accoltella Annalisa e in seguito il figlio, che morirà per le ferite inferte. Secondo la Corte di Strasburgo la tragedia poteva essere evitata se la magistratura, mettendo in atto tutte le misure previste dalla legge italiana, avesse agito immediatamente. I togati di Strasburgo sono infatti giunti alla conclusione che le autorità avevano sufficienti elementi per intervenire, e che dovevano sapere o avrebbero dovuto sapere che il rischio che correvano Annalisa e i suoi figli era reale e imminente. Dal fascicolo della Corte di Strasburgo risulta che la donna era stata già aggredita altre 3 volte, nel novembre del 2015, nel settembre 2017 e nel febbraio 2018. In questo arco di tempo Annalisa aveva sporto denuncia contro il compagno, e i carabinieri avevano sollecitato l’intervento del giudice, ma nulla si era mosso. Questa è la seconda volta che l’Italia è condannata per non essere intervenuta prontamente per prevenire una tragedia familiare. “La condanna della Corte di Strasburgo deve suonare come un monito ed essere un incentivo a migliorare, con urgenza”, ha affermato la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della Commissione Femminicidio. “Molto è stato fatto sul fronte legislativo, ma ci aspetta molto lavoro e questa sentenza deve spronare tutte le istituzioni italiane, tutti noi, a fare di più per combattere una piaga drammatica e strutturale quale la violenza contro le donne e il femminicidio, che coinvolge anche i minori”, ha aggiunto la senatrice. Per la Rete Nazionale-D.i.Re-Donne in Rete contro la violenza “ancora una volta la Corte Edu rileva l’inadeguatezza dello Stato italiano nel tutelare le donne, che denunciano la violenza domestica, e i loro figli”. (ANSA).
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I lanci ANSA

La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per non aver protetto una donna e i suoi figli dalla violenza domestica terminata in tragedia. I fatti risalgono al settembre del 2018 a Scarperia (Firenze), quando un uomo uccise a coltellate il figlio di un anno, ferendo in modo grave anche la convivente e cercando di uccidere l’altra figlia. “I procuratori – si legge nella sentenza – sono rimasti passivi di fronte ai gravi rischi che correva la donna e con la loro inazione hanno permesso al compagno di continuare a minacciarla e aggredirla”. Lo Stato dovrà versare alla donna 32mila euro per danni morali. (ANSA).
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Violenza domestica: legale, la sentenza Cedu è dirompente ‘Lo Stato non ha protetto la donna e i suoi figli’
“Una sentenza molto interessante e per certi versi dirompente, che impone allo Stato italiano un rafforzamento delle misure di protezione delle vittime di reati violenti”. Così l’avvocato Massimiliano Annetta, legale della donna che col suo esposto ha fatto condannare l’Italia dalla Cedu per violazione del diritto alla vita di un suo cittadino. Lo Stato italiano, precisa il legale, è stato condannato “perché non ha posto in essere tempestivamente le necessarie misure di protezione della vita della ricorrente e dei suoi figli, nonostante costei sin dal 2015 avesse presentato nei confronti del compagno numerose denunce per reiterate aggressioni e violenze poste in essere nei suoi confronti e reiterate minacce di togliere la vita ai loro figli”. “Secondo la Corte – prosegue Annetta, i pubblici ministeri sono rimasti totalmente inerti di fronte al grave rischio corso dalla ricorrente, consentendo al suo compagno di continuare ad aggredirla, fino al drammatico epilogo”. “Di particolare rilievo – aggiunge – l’affermazione della Corte che ha ritenuto immediatamente esperibile il ricorso perché all’interno dello Stato non sussistono rimedi da perseguire per far valere il fallimento dello Stato nell’obbligo di protezione. Questo significa che le vittime rimaste prive di ascolto e protezione da parte delle autorità statali potranno, immediatamente, esperire ricorso alla Corte europea per chiedere un risarcimento in conseguenza della violazione dell’obbligo di protezione del loro diritto alla vita”.
Tra le argomentazioni difensive che erano state portate alla Cedu dallo Stato italiano, spiega il legale, c’era anche quella secondo la quale alcuni mesi prima la donna aveva rimesso la querela presentata nei confronti del convivente, e poi lo aveva ripreso a vivere a casa sua. “La motivazione portata dallo Stato è inaccettabile – afferma l’avvocato Annetta – perché lo Stato ha comunque il dovere di capire cosa sta accadendo in questi casi, c’è anche un passo della sentenza della Cedu che critica questa linea di difesa”. Le autorità italiane, si legge nella sentenza della Corte di Strasburgo, avrebbero dovuto adottare misure di protezione verso la donna e i suoi figli, “indipendentemente dalla presentazione di denunce e indipendentemente dal fatto che fossero state ritirate, o del cambiamento di percezione del rischio da parte della vittima”. (ANSA).

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