Serena Sorrentino (Fp Cgil), col Patto sul lavoro pubblico si apre una stagione nuova

Serena Sorrentino, segretario generale della Funzione Pubblica Cgil: pochi mesi fa eravate in sciopero contro il governo, oggi, con un altro governo, Cgil Cisl e Uil hanno firmato un Patto che apre una stagione nuova, quasi rivoluzionaria, per il settore pubblico. Come è stato possibile, e lei come lo valuta?

Con il Patto si apre una stagione nuova di collaborazione tra l’amministrazione e il sindacato, finalizzata a  gestire il salto tecnologico, la trasformazione dei servizi, la modernizzazione di del sistema pubblico. Per noi, indubbiamente, è molto interessante poter costruire forme di partecipazione organizzativa attraverso la contrattazione che renda protagonisti le lavoratrici e lavoratori, a partire dallo smart working. Inoltre, nel Patto c’è finalmente anche il richiamo ad un piano per l’occupazione, tema fondamentale per potenziare ed innovare la pubblica amministrazione. Ma, ovviamente, quello che è stato firmato a Palazzo Chigi è un accordo che avrà bisogno di ”gambe” per camminare nella realtà. Ci saranno atti normativi da varare, contratti da scrivere, e soprattutto principi da presidiare: per far si che  rispondano, nella loro attuazione, alle finalità orientate al miglioramento dell’azione delle pubbliche amministrazioni, che per noi significa qualità del lavoro, riconoscimento professionale per garantire qualità dei servizi ai cittadini ed efficacia generale dell’azione amministrativa.

Dunque si tratta per ora di un accordo soprattutto politico, giusto?
Il Patto è  la base politica di un qualcosa che poi andrà realizzato. Cambiare l’approccio del senso comune nei confronti del ruolo sociale dei lavoratori che operano nei settori pubblici, e in generale tornare a rimettere al centro della programmazione strategica, derivante dalla stesura del PNRR, lo spazio pubblico come il terreno della ripartenza del Paese, sono tratti politici che segnano una discontinuità con le stagioni del disinvestimento nei settori pubblici.

In pratica, con questo Patto, avete ottenuto tutto quello che avete chiesto per anni senza esito. Tanto che a ottobre avete fatto uno sciopero contro il governo Conte. Cosa è cambiato?
Se siamo arrivati alla mobilitazione nella stagione precedente è perché quello che oggi è stato ribadito nel documento, cioè che la pubblica amministrazione è una precondizione per ricostruire le fondamenta del nostro modello sociale e di sviluppo, e dunque occorre mobilitare gli investimenti in un’ottica di innovazione organizzativa che metta al centro le persone che lavorano, cambino il profilo dei servizi, orientandoli al raggiungimento del benessere e della risposta più qualificata  ai bisogni emergenti, non era presente nell’agenda politica, se non sul fronte della valorizzazione della sanità pubblica .

Si è notata anche una sorta di “redenzione” del ministro Brunetta.  L’ha colpita?
Se il ministro ha cambiato l’approccio non posso che prenderne atto: ha detto che in passato ha dovuto usare la clava perché il contesto di crisi dell’epoca lo richiedeva. Ma i contesti cambiano, così come cambiano le attitudini delle persone ad affrontarli. Non sottovaluto, tuttavia, che tra i principi e la loro traduzione non solo il metodo, cioè la condivisione e il confronto costante, ma anche il merito, cioè quello che sarà scritto nei decreti e negli atti di indirizzo per i contratti, dovrà essere coerente. I giudizi compiuti li daremo sul lungo periodo, provvedimento per provvedimento. Non possiamo che misurare prossimità o distanza sul merito, è un tratto di serietà che chi esercita una responsabilità deve sempre avere l’accortezza di osservare.
…omissis

In questi giorni si è spesso fatto un confronto tra il Patto sul lavoro pubblico e il protocollo Ciampi del 93. Le sembra un paragone azzeccato?
Il richiamo al 1993 è soprattutto perché si vuole avviare una nuova stagione di coesione sociale. Il riferimento fatto da Draghi è al metodo Ciampi, più che al contenuto del protocollo sulla politica dei redditi e nuove relazioni industriali. Oggi il Patto punta a implementare i servizi ai cittadini, restituire valore e ruolo ai dipendenti pubblici, e scommettere sulla contrattazione per migliorare l’organizzazione dei servizi e far camminare di pari passo retribuzione, riconoscimento professionale e digitalizzazione. Ma soprattutto, punta alla coesione sociale, e auspico fortemente anche territoriale.

Quello della Pa, tuttavia, è solo un capitolo delle molte riforme che l’Europa ci chiede, e che sarebbero necessarie anche se non ce le chiedesse nessuno. Un primo passo, ha infatti detto ieri Draghi, avvertendo che “molto, quasi tutto, resta da fare”.
Servono molte riforme, che per ora non sono ancora in agenda. Se prendo a riferimento il discorso di Draghi al suo insediamento, direi che la road map degli interventi era già delineata. Ha annunciato, per esempio, che si impegnerà in una riforma fiscale organica, e che si affronterà il tema della concorrenza, vale a dire la riforma del bilancio dello stato, del modello di sostenibilità del welfare ed il ruolo dello Stato nel mercato. Sono argomenti che richiedono tempo, accurata riflessione, coinvolgimento ampio dei soggetti che in vari ambiti hanno rappresentanza e competenze.

Sono anche riforme di cui si parla da decenni. Questa volta cosa è diverso?
Una differenza è che questa volta ci sono gli strumenti per realizzarle, cioè i fondi del Recovery Plan. Grazie ai quali possiamo determinare una fase espansiva post crisi: e dobbiamo farlo adesso, o non ci sarà un’altra occasione. Possiamo uscire dalla crisi con maggiore equità e benessere, realizzando riforme e  mettendo in campo politiche che abbiano un tratto redistributivo. Un welfare più inclusivo, maggiore sicurezza sociale, pensioni di garanzia per i giovani, una giustizia efficiente, una rete di protezione per chi perde il lavoro.

Ma Draghi secondo lei riuscirà a fare tutto questo?
Sicuramente il Governo Draghi ha una missione istituzionale definita: scrivere il recovery plan vuol dire creare le basi per un nuovo modello di società, cioè selezionare le priorità e definire gli assi delle riforme strutturali di sistema: la Pa, la Salute, le Infrastrutture, la Giustizia. Da tempo la politica dell’immediatezza aveva perso la capacità di promuovere una visione del futuro. La differenza, oltre a quello che abbiamo detto prima, la farà appunto il livello di partecipazione di tutte le forze sociali, della filiera istituzionale, dei soggetti che nella società rappresentano esperienze e specificità in diversi ambiti della società, della filiera della conoscenza e dell’azione civica. Le competenze, la tecnocrazia, non hanno un abito neutro: il punto sarà l’orientamento politico delle scelte, la dimensione di equità e giustizia sociale che caratterizzerà l’azione riformatrice. Per quanto mi riguarda, ho sempre l’ottimismo della volontà, oltre alla determinazione di essere parte di quel movimento di impegno civile e sociale che ha a cuore il futuro delle nuove generazioni, senza dimenticare che bisogna occuparsi di chi è in difficoltà nel presente.

Nunzia Penelope da il diariodellavoro.it

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