Regolarizzazioni: Mininni (Flai), il governo non si è dimostrato all’altezza

Intervista a Giovanni Mininni (Flai Cgil). “Su un tema così importante il governo non si è dimostrato all’altezza”. Il punto sul lavoro nei mesi del Covid

“La nostra categoria ha retto molto bene nel governo e nella gestione dell’emergenza Covid-19. È un dato di fatto”. È un commento orgoglioso, quello col quale Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil, apre questa intervista. “A differenza di altri settori dove il lavoro è stato sospeso – spiega a Collettiva – abbiamo dovuto fronteggiare una doppia emergenza, perché i nostri lavoratori sono stati considerati essenziali sia nell’industria alimentare che nell’agricoltura. All’inizio sono stati sospesi i forestali, ma dopo un mese e mezzo sono stati riavviati al lavoro anch’essi. Dunque in tutti i comparti i lavoratori hanno proseguito l’attività. E ci siamo dovuti confrontare immediatamente con le loro paure rispetto al rischio di essere contagiati da un virus che non si conosceva. Situazione complicata dal fatto che invece altri lavoratori, per precauzione, restavano a casa. Ma bisognava ‘garantire il cibo alla nazione’, insomma i prodotti alimentari ai supermercati”.

Come ci siete riusciti?
Ci ha aiutato moltissimo il Protocollo del 14 marzo. Dobbiamo esserne orgogliosi, siamo forse l’unico paese al mondo, o uno tra i pochi che sono riusciti a regolamentare il lavoro durante il periodo peggiore della pandemia, grazie all’azione di Cgil-Cisl-Uil. Il che ci ha consentito di governare le paure delle persone, cercando di garantire il lavoro in sicurezza. Abbiamo fatto molti accordi nelle aziende (250, vedi la scheda, ndr) che hanno consentito di ridurre i ritmi, di ripensare l’organizzazione del lavoro sulle linee creando condizioni compatibili con le norme sul distanziamento fisico. In molte aziende è scattata subito la disponibilità a seguirci, i Dpi sono stati forniti a tutti i lavoratori. Tranne che in alcune imprese dove abbiamo avuto qualche problema, ma per fortuna sono state una minoranza.

Insomma dove c’è il sindacato l’emergenza è stata controllata meglio?
Sì. Quello che ho detto sin qui lo possiamo affermare per le aziende sindacalizzate. Ma non sappiamo cosa sia successo dove il sindacato non c’è, se non per alcuni casi gravi, soprattutto nel comparto agricolo, dove il Protocollo fatica tuttora ad essere applicato. Diciamo che la situazione è sotto controllo, ma ci sono alcuni comparti che lamentano la necessità di maggiore intervento. Penso alla condizione dei cittadini bulgari a Castel Volturno, impiegati nella raccolta dei prodotti per l’agricoltura: altro che mascherine, là mancava tutto, non c’erano nemmeno i dispositivi di protezione previsti dalla normativa su prevenzione e sicurezza. In generale, ad ogni modo, abbiamo governato le fasi più acute che sono, spero, alle spalle. Penso a regioni importanti come la Lombardia, dove senza il Protocollo si sarebbe fermato il settore agroalimentare, un settore intensivo e importante. Ma penso anche alla trasformazione delle carni. Attività che in regioni come Lombardia ed Emilia-Romagna, le più esposte alla pandemia, trovano la loro punta di diamante.

Qualcosa resterà degli accordi sull’organizzazione del lavoro, una volta finita l’emergenza?
Non credo che rimarrà nulla. Questa è una società basata sulla necessità di produrre, di vendere. Se tu come impresa hai l’obbligo di competere sul mercato internazionale, sta nelle cose che riporterai i ritmi di lavoro ai livelli pre-Covid. Saranno rimesse a pieno ritmo le linee. Per il momento ha rallentato l’export, la produzione si è orientata al mercato interno, soprattutto ai supermercati, visto che ristoranti, bar e alberghi faticano ancora a riprendere. È avvenuta una rimodulazione del mercato interno e quindi della produzione alimentare. Ma se le imprese non si riappropriano di quote di mercato estero, corrono il rischio di perderle per sempre. Noi siamo in parte protetti dai nostri prodotti di alta qualità, su cui non abbiamo timore di competizione, quelle sono quote che probabilmente riusciremo a riprendere con facilità. Ma il settore fatica, e se a fine anno dovesse ripartire, avremmo maggiori pressioni dalle imprese dove si produce ancora a scartamento ridotto perché si torni ai ritmi pre-Covid, così da saturare il ritardo di settori come la ristorazione e il turismo.

Parlavi della trasformazione della carne. In Emilia stanno scoppiando dei focolai di coronavirus e sta partendo l’ennesima caccia all’immigrato. In questi settori la questione sanitaria che sta emergendo è anche legata a fenomeni di destrutturazione e sfruttamento? Oppure ci sono altri fattori insiti nei modi di lavoro che rendono più rischiosa l’attività?
Dove la filiera è più destrutturata, è più facile incontrare mancanza di diritti e condizioni salariali peggiori. Negli anni scorsi, nella ricchissima Emilia-Romagna, avevamo già denunciato il problema della filiera delle carni, dove i processi sono diventati sempre più intensivi scaricando sul lavoro la competizione tra le imprese. Si sono compressi i diritti dei lavoratori. Questo è il modello in Emilia, dove assieme alla Lombardia abbiamo il grosso della produzione di carne e di macelli: appalti, subappalti, cooperative spurie che ricorrono al cottimo. È un modello al ribasso che ha visto la progressiva sostituzione di lavoratori italiani con gli stranieri, immigrati sotto ricatto disposti ad accettare condizioni peggiori. Non solo salari più bassi, ma anche situazioni nelle quali le normative sulla sicurezza non vengono rispettate. E dove non c’è il sindacato non sappiamo nemmeno se il Protocollo anti-Covid sia stato applicato correttamente.
Inoltre sulle linee di macellazione e lavorazione di pollame e suini, linee persino più intensive che nel settore metalmeccanico, il distanziamento è difficilissimo da osservare. Addetti come i disossatori devono correre dietro alla velocità della linea senza mai fermarsi. Come fai a rispettare il Protocollo in queste condizioni, se non c’è una presenza forte del sindacato? E se poi non offri un salario decente alle persone, le costringerai anche a stiparsi in appartamenti sovraffollati.

Emergono analogie abbastanza evidenti con fenomeni di contagio esplosi all’estero, ad esempio nei macelli tedeschi ‘intossicati’ dalla piaga di appalti e subappalti.
Dobbiamo sfatare un mito: in Germania la situazione è molto peggiore che in Italia. Non tanto per le condizioni abitative, ma proprio nei luoghi di lavoro, dove non è stato sottoscritto un protocollo anti-Covid. Il contagio maggiore in Germania probabilmente è dovuto proprio a questo motivo: le condizioni sono rimaste le stesse del periodo pre-Covid, senza alcun distanziamento. Peraltro nel settore della macellazione il sindacato tedesco non è così forte. La differenza tra l’impatto forte del coronavirus nelle loro aziende e quello contenuto nelle nostre è dovuta quasi sicuramente al Protocollo.

Cambiamo argomento. A che punto sono le trattative per i rinnovi contrattuali, specie nell’industria agroalimentare?
Sul contratto dell’industria è piombato come un meteorite il Covid-19, impedendoci qualsiasi mobilitazione e rallentando la trattativa. Ma siamo riusciti, unitariamente, a riaprire con le controparti un confronto che ha avuto una sua originalità. Federalimentare non è stata più in grado di coordinare e governare le diverse spinte interne, le sue 13 associazioni si sono divise, anche e soprattutto per nostra iniziativa. Abbiamo superato l’ostracismo di Federalimentare, che non voleva riaprire il tavolo interrotto a fine febbraio, rivolgendoci direttamente alle associazioni. In questo modo siamo riusciti ad aprire due tavoli con Unionfood, Ancit, Assobirre e i produttori di carni, il che ha scardinato la linea di resistenza della federazione. Negli ultimi venti giorni abbiamo recuperato in un terzo tavolo le nove associazioni rimaste fuori.
È una modalità inedita di confronto: i temi discussi sui primi due tavoli li abbiamo portati al terzo, lavorando più velocemente e allineando i negoziati. Il lavoro agile, ad esempio, uno dei temi principali della contrattazione, l’abbiamo dovuto discutere su tre tavoli diversi, cercando di tenere ferma la volontà di arrivare a un contratto unico, seppure rispettando le specificità dei diversi settori. Al momento la parte normativa è quasi conclusa, insomma abbiamo colto l’obiettivo. Ma siamo in una fase molto delicata: nei prossimi giorni dovremo affrontare la parte economica, il tema del welfare e degli aumenti contrattuali. Potremmo scontare pressioni maggiori, anche perché ti trovi di fronte a settori con valori aggiunti diversi e marginalità diverse. Ma non accetteremo mai un rinnovo che preveda salari diversi, anche se è una soluzione caldeggiata da Confindustria. Il contratto è uno solo.

Se sulla stagione contrattuale l’ottimismo sembra moderato, non si può dire lo stesso della regolarizzazione dei migranti, una campagna che purtroppo sta andando male. Cosa non ha funzionato?
Questa regolarizzazione l’abbiamo voluta con tutte le nostre forze, e ci siamo spesi con l’appello lanciato assieme ad altre associazioni e personalità. Ritenevamo che fosse uno strumento utile anche a combattere e prevenire l’emergenza sanitaria nei ghetti, oltre che a fronteggiare l’illegalità del lavoro migrante in Italia. Perché la regolarizzazione si sta rivelando molto probabilmente un fallimento? La Flai è molto impegnata nei territori in questi giorni e i riscontri che abbiamo mi costringono a usare una parola forte: penso che sia un fallimento dello Stato italiano, che avrebbe dovuto dare un segnale di efficienza e non l’ha fatto. A un mese e mezzo dall’apertura dei termini (peraltro prorogati fino a metà agosto), ti sembra possibile che un decreto fondamentale del ministero del Lavoro non sia stato ancora promulgato? È una vergogna. Quel decreto dovrebbe indicare il costo che deve sostenere un datore di lavoro per sanare il pregresso. Se molte domande di regolarizzazione sono ferme nelle nostre sedi, sia della Flai che dell’Inca, e non vengono inoltrate, la ragione è perché nessun datore si avventura in una regolarizzazione senza conoscere i costi incontro ai quali dovrà andare. Sono più di due settimane che seguiamo l’iter del decreto, tra ministeri competenti e Mef. Già la regolarizzazione, inserita a quel modo nel dl Rilancio, ci ha impedito qualsiasi miglioramento attraverso gli emendamenti, che sono stati tutti tagliati. Adesso aspettiamo che la ministra Catalfo si decida, ma se il suo decreto esce troppo tardi, negli ultimi giorni, se lo può anche tenere. Se il governo farà fallire la regolarizzazione, dimostrerà di non essere all’altezza di temi così complessi, e di non avere quella determinazione che manca anche alle forze di polizia quando non fermano i furgoni dei caporali che viaggiano sulle strade del foggiano o di Rosarno.

La legge sul caporalato, un’altra normativa scarsamente applicata…
Per combattere caporalato e sfruttamento non serve l’intelligence ma la volontà. Per fermare quei furgoni pieni di migranti, spesso non a norma, basterebbe un vigile urbano che applicasse il codice della strada. Siamo costretti a parafrasare Brecht: la lotta al caporalato è di una semplicità che sembra impossibile a farsi con questo Stato. di Davide Orecchio da collettiva.it

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