Landini, “Non sono contro il green pass Ma non sia un pretesto per licenziare”

Maurizio Landini, sessant’anni fra una settimana, da due e mezzo segretario generale della Cgil, in linea di principio non è contrario a discutere del «green pass» nelle aziende. A patto che il sistema non preveda sanzioni per i lavoratori e che a muovere sia il governo con un atto di legge, senza demandare il peso della scelta alle parti sociali.
Landini, lei è contro il «green pass» in azienda come si dice?
«Non abbiamo contrarietà di principio. Noi abbiamo scioperato per avere i protocolli di sicurezza in azienda. Siamo a favore del fatto che le persone si vaccinino e come sindacato stiamo raccomandando ai lavoratori di farlo. Siamo per garantire i migliori standard di sicurezza nelle imprese. Ma c`è un discrimine: non è possibile pensare a licenziamenti o demansionamenti, perché eventualmente un dipendente sceglie di non vaccinarsi».

Ma se manca il disincentivo per il lavoratore che rifiuta il vaccino, come può funzionare un «green pass» in azienda?
«Qui si sta parlando di rendere obbligatorio un trattamento sanitario: è qualcosa che si può decidere solo per legge. Se il governo valuta che sia necessario, può varare una norma. E già successo nel settore sanitario dove per alcuni dipendenti – non per tutti – è stato stabilito l`obbligo di vaccinazione».

Scusi l`insistenza: Confindustria ha parlato di sospensione dallo stipendio per chi rifiuta.
«Inaccettabile per noi, naturalmente. Non se ne parla neanche. Né di questo, né di demansionamenti. Ci sono esperienze in diverse aziende che utilizzano lo smart working per certi dipendenti o fanno un uso molto diffuso dei tamponi. In ogni caso un provvedimento obbligatorio ha bisogno di una legge. La responsabilità è del governo e non può essere scaricata su un accordo fra le parti sociali. Se il governo matura questo orientamento e saremo consultati siamo pronti ad esprimere il nostro punto di vista e a dare il nostro contributo».

Se lei ipotizza un sistema di tamponi nelle aziende, spetterebbe al governo fornire gli strumenti e il personale?
«Alcune aziende sono già centri vaccinali. Ma è importante ricordarsi che il green pass di per sé non risolve tutti i problemi. Non può diventare il pretesto per smantellare le norme di sicurezza, dal distanziamento alla sanificazione. Ormai sappiamo che anche una persona vaccinata potenzialmente può contagiate e può ammalarsi, anche se con le dosi queste eventualità sono molto meno probabili. Del resto proprio le tutele che abbiamo concordato hanno impedito fin qui che le imprese diventassero dei focolai. Vanno mantenute».

Il 6 agosto scatta il «green pass» nei ristoranti. Carlo Bonomi di Confindustria dice che lo stesso dovrebbe valere per le mense aziendali…
«Sono contro le forzature. Siamo di fronte a una situazione di una complessità mai vista e le complessità non si semplificano: si affrontano. Lo può fare solo con la pazienza di ricercare il consenso. Non è semplice, io la soluzione in tasca non ce l`ho. Ma chi ha paura, va aiutato a superarla. Se una persona che esita viene trattata in modo sprezzante, la si consegna alla logica dei no vax. E non dimentichiamo: anche da vaccinati, nel nostro Paese si continua a morire sul lavoro. E questo rimane il problema da risolvere per tutti».

Bonomi dice anche che il piano Ue per abbattere del 55% le emissioni rischia di costare caro all`industria italiana. Su questo concorda?
«Proprio perché siamo di fronte a una transizione ambientale, digitale e anche demografica, trovo che sia il momento di cambiare. E momento della pianificazione e di una politica industriale seria. Lasciare al mercato il compito di risolvere tutti i problemi significa andare a sbattere».

Lei propone un`altra stagione di interventismo?
«Dico che invece di resistere al cambiamento, in Italia dobbiamo discutere di come possiamo essere all`avanguardia facendo sistema: servono politiche industriali, di filiera e di settore: nella chimica, nell`energia, nell`auto, nei metalli, nell`acciaio, nei materiali da costruzioni. Serve un collegamento fra il piano per il Recovery e le politiche industriali, che un po` manca. Non dobbiamo pensare a cosa succede domattina, ma ai prossimi cinque o dieci anni».

I primi licenziamenti si vedono nell`automotive, perché arriva l`elettrico e noi su questo siamo indietro.
«Quello che fanno le multinazionali, che rifiutano qualunque responsabilità sociale d`impresa, è inaccettabile. Guardiamo i fatti: in Italia abbiamo la capacità di produrre 5 milioni di auto all`anno, ne facciamo la metà e siamo il Paese con i mezzi più vecchi e inquinanti. Possiamo fare un accordo con Stellantis perché produca qui un`auto ibrida di fascia B, un`utilitaria verde a prezzi accessibili. Chiamiamola “Stellina”, se volete. E lo stesso per i seimila autobus elettrici previsti dal Recovery. Ma significa coinvolgere il governo con politiche industriali, non a pioggia».

A propositi di Recovery: non è un paradosso pagare imprese cinesi con i fondi europei per avere pale eoliche e pannelli fotovoltaici?
«Totalmente. Per questo dico che servono politiche di filiera, dall`energia alla plastica. Quei beni possiamo produrceli qui».

A Montepaschi ci sono tagli di posti in vista. Inevitabile?
«Noi siamo contrari a qualsiasi idea di spezzatino di Mps. E pensiamo che, dopo l`intervento pubblico che c`è stato, non è pensabile usare risorse del contribuente per fare licenziamenti e chiusure».

Di Federico Fubini da il Corriere della Sera

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