Cassazione, la pausa caffè è a rischio del lavoratore Accolto ricorso Inail, niente indennizzo se capita un infortunio

(di Margherita Nanetti) Niente indennizzo per malattia nè riconoscimento di invalidità per i lavoratori che incappano in un infortunio mentre consumano il ‘rito’ della pausa caffè in orario di servizio, anche se hanno il permesso del capo per andare al bar all’esterno dell’ufficio sguarnito di un punto ristoro. A stabilirlo è la Cassazione che ha accolto il ricorso dell’Inail contro indennizzo e invalidità del 10% in favore di una impiegata della Procura di Firenze che si era rotta il polso destro cadendo per strada mentre, autorizzata, era uscita per un caffè. Per gli ermellini, la ‘tazzina’ non è una esigenza impellente e legata al lavoro ma una libera scelta, come ha sostenuto l’Istituto nazionale per l’assicurazione degli infortuni sul lavoro difeso dalle avvocatesse Luciana Romeo e Letizia Crippa. A fare per prima le spese di questa ‘stretta’ della Suprema Corte alla consuetudine del coffee-break, è stata Rosanna B., ironia della sorte proprio un’impiegata nel ramo ‘giustizia’ della pubblica amministrazione, che ha avuto la disavventura di cadere per strada e rompersi un polso nel luglio 2010 mentre era uscita in pausa caffè, autorizzata dal suo capo. La Procura di Firenze – sua sede di lavoro – non aveva un bar interno. L’impiegata ha ottenuto in primo e secondo grado da Tribunale e Corte di Appello del capoluogo toscano il riconoscimento del diritto all’ indennità di malattia assoluta temporanea e l’indennizzo per danno permanente del 10% per l’incidente nel tragitto verso il bar considerato infortunio sul lavoro. Ora Rosanna, a 11 anni dal capitombolo e dopo aver atteso dal 2015 la fissazione dell’udienza in Cassazione, ha perso il diritto agli indennizzi ed è stata condannata a pagare 5.300 euro di spese legali e di giustizia. Ad avviso dei supremi giudici, infatti, non ha diritto alla tutela assicurativa dell’Inail chi affronta un rischio “scaturito da una scelta arbitraria” e “mosso da impulsi, e per soddisfare esigenze personali, crei e affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente l’attività lavorativa”, pur intesa in senso ‘ampio’, “con ciò ponendo in essere una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento” di infortunio. Pertanto, prosegue il verdetto “è da escludere la indennizzabilità” dell’incidente “subito dalla lavoratrice durante la pausa al di fuori dell’ufficio giudiziario ove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè, dato che allontanandosi dall’ufficio per raggiungere un vicino pubblico esercizio, si è volontariamente esposta ad un rischio non necessariamente connesso all’attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente”. Ed è del tutto “irrilevante”, prosegue l’Alta Corte, “la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro in ordine a tali consuetudini dei dipendenti, non potendo una mera prassi o comunque una qualsiasi forma di accordo tra le parti del rapporto di lavoro, allargare l’area oggettiva di operatività della nozione di occasione di lavoro”. Dunque il permesso del capo non tramuta la pausa caffè in un momento lavorativo o connesso a motivi di servizio. “Quando l’infortunio si verifica al di fuori, dal punto di vista spazio-temporale, della materiale attività di lavoro e delle vere e proprie prestazioni lavorative (si verifica cioè anteriormente o successivamente a queste, o durante una ‘pausa’), la ravvisabilità dell’occasione di lavoro – spiega e conclude la Cassazione – è rigorosamente condizionata alla esistenza di circostanze che non ne facciano venire meno la riconducibilità eziologica al lavoro e viceversa la facciano rientrare nell’ ambito dell’ attività lavorativa”, o di tutto ciò “che ad essa è connesso o accessorio in virtù di un collegamento non del tutto marginale”. (ANSA).

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La critica della Avvocata Gabriella Del Rosso

A leggere la notizia sembra l’ennesimo caso del dipendente pubblico furbetto che si prende la pausa caffè alla faccia di chi non se lo può permettere. Per questo la cosa fa notizia. MA NON È COSÌ. La Cassazione sostiene che non è indennizzabile l’infortunio occorso ad una lavoratrice mentre tornava da un bar ove si era recata per ‘prendere un caffè ‘ perché si era trattato di una libera scelta, non connessa alle mansioni lavorative e dunque non sussisteva il diritto all’indennizzo INAIL. Senonché tale affermazione non tiene conto degli elementi concreti che avevano portato alle decisioni del Tribunale e della Corte di appello, entrambe favorevoli alla lavoratrice. Quella pausa era una prassi consolidata e permessa dal capo dell ‘Ufficio, perché nei locali di lavoro non vi era né macchine per un ristoro né, tantomeno, un bar interno. L’orario di lavoro era dalle 8 alle 14 continuativo. I giudici di merito avevano ritenuto che la pausa e il ristoro fossero necessità fisiologiche connesse alle modalità lavorative ed io ritengo che avessero preso le decisioni giuste. La Cassazione riflette un concetto vecchio di “occasione di lavoro’, superato dalla giurisprudenza formatasi dopo la riforma del testo unico avvenuta nel 2000 e nello stesso tempo dimostra una concezione asfittica del lavoro, inteso come mera prestazione materiale, mentre nel concetto di lavoro devono essere comprese le esigenze della persona che siano dettate da necessità normali secondo il sentire comune e che magari servono anche per lavorare meglio come appunto una pausa con consumazione o meno del caffè.
Un ‘ultima notizia (che purtroppo non fa scalpore), la causa è iniziata nel 2010 ed è quindi durata 11 anni, la Cassazione ci ha messo 6 anni per decidere.

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